- Alcune riflessioni sul “gioco della sabbia”
- Intervento di Adriana Mazzarella al I Convegno di Art Therapy
“La storia di Bianca”, un importante contributo alla pratica analitica
Il saggio racconta la storia terapeutica di “Bianca”, nome di fantasia di una paziente di trentun’anni che si è presentata all’analista in stato di grave depressione, alternato a grande confusione emotiva, crisi di pianto, disperazione e profonda disistima di sé.
Bianca si è sposata giovane, appena laureata, e ha trovato subito un buon impiego; un anno dopo ha avuto una prima figlia. Il marito, che si è laureato dopo il matrimonio, ha invece un lavoro modesto, ma è un bell’uomo, pretende un’auto nuova, la moto e viaggi all’estero; poi si è buttato in politica, trascinando anche la moglie. Di fatto il marito è un “puer”, un eterno fanciullo incapace di assumersi le proprie responsabilità, e il peso della famiglia ricade tutto sulle spalle di Bianca. Lei tuttavia, all’inizio, è stata felice di assecondare i desideri del marito, credendo così di opporsi ai rigidi modelli borghesi della famiglia d’origine. Dopo sette anni di matrimonio Bianca è sull’orlo di un esaurimento psicofisico: chiede la separazione ma il marito rifiuta. Ne seguono mesi di litigi, ricatti affettivi, ritorsioni, forti risentimenti.
Bianca va dall’analista in questa condizione, piena di sensi di colpa verso il marito, le figlie, i genitori. La vita le sembra priva di significato, è sopraffatta da un’emotività distruttiva. L’analisi dei sogni indica che Bianca, per differenziarsi dalla madre formale e poco affettiva, ha sviluppato un Animus combattivo, legato all’affermazione professionale. Ma parlare per Bianca è difficile e doloroso, ogni parola rischia di avere su di leti un effetto distruttivo, perciò l’analista le propone di lavorare con la sabbia.
La nuova terapia dura sedici mesi, nel corso dei quali Bianca realizza trenta “quadri di sabbia”, che sono di volta in volta fotografati dall’analista. Alla fine del percorso, con grande commozione, l’analista e Bianca riguardano e commentano insieme i “quadri”. Bianca sta molto meglio. Lavora con successo, si è risposata e ha avuto un terzo figlio. Ritorna sporadicamente dall’analista e compone altri venti “quadri di sabbia” che l’aiutano nella ricerca di un nuovo femminile.
Nel saggio di Adriana Mazzarella i “quadri” più significativi sono presentati ed esaminati singolarmente e nel loro sviluppo. In termini di psicologia analitica si può dire che, nel corso dell’analisi, Bianca riesce a sciogliere il legame infantile col padre, su cui aveva proiettato le sue qualità maschili creative – la visione delle cose, la filosofia della vita, il lavoro intellettuale – designate da Jung col termine di Animus (vedi immagine sotto: “Il distacco dall’imago paterna”). Ciò ha permesso alle energie dell’inconscio di prendere la guida del processo di sviluppo: l’Animus è diventato creativo fino al punto da far emergere l’immagine del Sé. Un nuovo Io si è sviluppato, un femminile più armonico, con una nuova capacità di riflessione e di riconoscimento della propria Ombra, fino a giungere a quella “conoscenza del cuore”, tipica del femminile rappresentata dalla Sapienza.
Esempio di un “quadro di sabbia” di Bianca: “Il distacco dall’imago paterna”
Bianca ha costruito una foresta, ai margini della quale sono al lavoro due boscaioli. Dentro la foresta c’è una casetta in cui vive un vecchio guardacaccia. Davanti alla casetta passano due frati francescani accompagnati da un cane. Dal profondo della foresta esce una carrozza, dentro la quale c’è una donna sola. Bianca comincia a piangere, dice di essere disorientata, di non credere più in sé stessa. Il bosco è la confusione, dalla quale sa di dover uscire, anche se il passaggio è difficile. L’aiutano i boscaioli che, tagliando gli alberi, anche se è doloroso, facilitano il distacco dalle cose passate. L’aiutano i frati francescani, che favoriscono una visione più spirituale della vita, che non esclude la natura e gli istinti. L’aiuta soprattutto il cocchiere della carrozza, l’Animus che la guida nel suo cammino di distacco dall’imago paterna (il vecchio guardacaccia, ossia la visione del mondo legata al padre).
Alcune riflessioni sul “gioco della sabbia”
Importante è un altro scritto di Adriana Mazzarella pubblicato nel 1994 dalla “Rivista di psicologia analitica”, Ed. Astrolabio
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Intervento di Adriana Mazzarella al I Convegno di Art Therapy
Sand Play Therapy (terapia del gioco della sabbia). Un metodo terapeutico junghiano ideato da Dora Kalff
La terapia della sabbia è un metodo di derivazione junghiana introdotto dalla dottoressa Dora Kalff, allieva di Jung e da lui molto incoraggiata nell’applicarlo alla terapia infantile. Il metodo è quindi cresciuto nel suo divenire attraverso l’esperienza che ne ha fatto la dottoressa Dora Kalff. Considerato, all’inizio, particolarmente adatto alla terapia infantile, il metodo si è dimostrato utilissimo anche nella terapia degli adulti come cura delle nevrosi e dei disturbi psicosomatici. Quando c’è una psicosi latente è meglio non usarlo, perché il metodo pone in movimento la base archetipica della psiche e può verificarsi uno scompenso psicotico; esso può essere utile invece nelle psicosi già conclamate e rientrate con la terapia (naturalmente applicato con prudenza da parte del terapeuta), e può dare «senso» alle immagini potenti con cui lo psicotico si trova in contatto. Esperienze con i bambini autistici sono in corso presso l’Ospedale del Bambin Gesù a Roma.
La dottoressa Kalff ha sperimentato il metodo non solo in Svizzera, ma in tutta l’Europa, in America e in Estremo Oriente, specialmente in Giappone, lasciando dappertutto allievi da lei stessa formati. Ancora oggi la dottoressa Kalff sta sperimentando il metodo sulle persone anziane, vicino alla morte, in bambini affetti da malattie inguaribili e sulle donne gravide. La dottoressa Kalff ha più volte affermato che i bambini, o «il bambino nell’adulto», sono in genere molto trascurati da chi si occupa di psicologia junghiana, per cui la terapia dei bambini o del bambino nell’adulto sembra a volte una «strada di secondo ordine», distaccata in qualche modo dalla grande via maestra della psicologia analitica classica dell’adulto. Jung invece, nel momento in cui propose alla dottoressa Kalff di diventare analista per i bambini, affermò: «Lei deve sapere che quelli che lavorano con i bambini devono avere integrato molto di più di quelli che lavorano con gli adulti». Nella sua opera Psicologia del transfert Jung afferma decisamente che se nell’analisi del paziente non si riesce a toccare il livello dell’infanzia, nessuna analisi può dirsi completa.
La consapevolezza dei propri problemi da parte dell’analista è molto importante, perché il bambino non può difendersi e sarebbe la cosa meno augurabile che egli subisse, oltre alla nevrosi familiare e sociale, che in parte hanno strutturato la sua malattia, anche quella del terapeuta. Il gioco della sabbia è stato in definitiva inventato dai bambini stessi. Il bambino prova una gioia innata a lavorare con una materia plasmatica; dice Freud che la «prima materia» con la quale il bambino giocherebbe, sono i suoi escrementi. Sotto l’influsso del divieto dei genitori, l’interesse viene spostato su altre sostanze; tra queste anche la sabbia nella cassetta; è importante che la cassetta sia di una certa misura, perché, creando il «limite», essa provoca l’incanalamento delle energie psichiche, pur rimanendo tutta intera nel campo visivo di chi gioca.
La sabbia ha proprietà mercuriali quando è asciutta, perché sfugge da tutte le parti, mentre quando è bagnata dà una sensazione tattile diversa. Il materiale offerto dal metodo è altamente simbolico: oltre alla cassetta che crea il «limite», il paziente ha a propria disposizione terra e acqua, il materiale che sta miticamente all’origine della creazione dell’uomo (vedi la creazione dell’uomo nella Genesi); a questo materiale primigenio il paziente accosterà, nel corso dell’opus, il fuoco, l’aria (lo spirito) come facevano gli alchimisti, fino ad arrivare come loro alla «quinta essentia».
Oltre alla sabbia e all’acqua il terapeuta mette a disposizione del paziente innumerevoli simboli della vita quotidiana e non, simboli del folklore, simboli religiosi, simboli naturali (come sassi, alberi, frutti ecc.). Si crea così una costellazione dello strato archetipico attraverso i simboli, mentre la coscienza partecipa nella scelta degli oggetti e nel plasmare le forme.
Si viene a creare uno stato di gioia di creare (si apre lo spazio creativo) attraverso il gioco e si rivive quello «spazio transizionale» di cui parlò Winnicott, che il bambino vive con la madre e che è il presupposto insostituibile della creatività dell’adulto: uno spazio in cui la distinzione fra realtà concreta e realtà simbolica sfuma e non c’è quella netta distinzione presente nell’adulto; si verifica una sorta di oblio di sé nel gioco, con la messa in moto di processi psichici interni e di fantasie.
Nella sabbia c’è indubbiamente un momento proiettivo, specialmente all’inizio, quando il dramma del paziente viene reso visibile. Se i contenuti espressi nella sabbiera vengono compresi dal terapeuta, attraverso le successive creazioni nella sabbia si mette in moto un processo, un «viaggio» attraverso l’inconscio. È necessaria, da parte del terapeuta, una grande conoscenza dei simboli. In questo senso egli deve applicare il metodo dell’amplificazione introdotto da Jung, egli deve possedere la conoscenza dei simboli del folklore, delle varie religioni, delle favole e di quanto la ricerca antropologica ed etnologica ci hanno apportato.
Attraverso questa amplificazione, il terapeuta avverte cosa sta avvenendo nella sabbiera, ma la sua deve essere una comprensione silenziosa; non bisogna mai interpretare, altrimenti si blocca il fluire spontaneo delle immagini.
Oltre alla sabbiera di determinate dimensioni, all’acqua, alla sabbia e agli oggetti, è fondamentale la «personalità» del terapeuta, che, come in qualsiasi analisi terapeutica, è il «vaso alchemico» in cui avviene la trasformazione.
È la fase dell’educazione, che il terapeuta deve guidare tenendo conto delle qualità creative del paziente, che si sono manifestate nel corso della terapia. Alla terapia col gioco della sabbia si avvicinano i bambini con grande entusiasmo e le donne in genere, tranne quelle che hanno sviluppato molto la razionalità in modo unilaterale. Gli uomini hanno maggiori difficoltà, perché è necessario un «sacrificium intellectus» per accettare di sporcarsi le mani e giocare come un bambino. Eppure è necessario ridare alla terra e all’acqua, al principio femminile in genere, la sua vera dignità. Il principio femminile contiene enormi quantità di energie, in esso è nascosta la «sapientia» degli gnostici o la «kundalini» dell’Oriente. Queste enormi energie del Femminile, se sviluppate, possono portare a una spiritualizzazione e alla nascità del Sé. Se l’analizzando accetta di lavorare con questa materia mercuriale, inizia un processo di trasformazione: le immagini che vengono via via prodotte sono l’equivalente dei successivi stadi dell’opus alchemico, sul quale i nostri antenati alchimisti proiettavano la redenzione della loro anima.
La Sand Play Therapy è un modo per mettere di nuovo in movimento le energie bloccate. La specificità del metodo è quella di offrire una situazione in cui, nel silenzio meditativo, si possono esprimere i propri contenuti profondi e le proprie situazioni nevrotiche in modo simbolico: ciò consente di avere contatto col Sé (al di là di ogni forma religiosa), attivando quella religione naturale che riconduce all’Unità e alla armonizzazione delle polarità opposte prima dissociate.
Dagli Atti del Convegno, Cernusco sul Naviglio 30 giugno 1983