È passato già un anno dalla scomparsa di Adriana: la ricordiamo con questo racconto-testimonianza di una sua paziente.
Iniziò così: sognai che mi trovavo su una collina, là dove la pianura di Verona si apre a nuovi orizzonti. Punto panoramico sulla pianura, luogo di apertura di sguardo verso orizzonti lontani.
Luogo di futuro.
Ecco, mi trovavo lì, in piedi, e guardavo la pianura, l’orizzonte lontano e ampio, disteso, cinerino, portatore di novità; lasciavo alle spalle le montagne, la chiusura dell’orizzonte, la ristrettezza.
Ero lì, guardavo assorta, quando una voce alle spalle mi disse: “Andrai a Milano e lì riceverai la Prima Comunione da persone che non conosci ma che conoscerai.”
Di lì iniziò il mio nuovo cammino, iniziò potenzialmente, la realtà sarebbe poi seguita: prima le intuizioni, la sensitività, l’atto creativo, poi la quotidianità.
Così, non ravvedendo nulla nel presente di allora che avesse a che fare con Milano, vissi la mia vita, la mia quotidianità ignara. Solo più tardi avrei capito, come sempre quando si preannunciano cambiamenti, cambi di direzione, inversioni di marcia.
Poi conobbi Adriana.
Avevo scritto un racconto intitolato “Klaia, storie di nomadi e non…” e qualcuno mi disse: “Invialo a lei, deve leggerlo, è bellissimo”.
Così feci.
Lo inviai e io Adriana, la dottoressa Mazzarella, non la conoscevo: la leggevo sui libri, la studiavo per la tesi, la stimavo perché stimata da persone a lei vicine e che io conoscevo bene, apprezzavo ciò che scriveva e come lo scriveva, ma personalmente non la conoscevo.
Così le inviai il mio scritto.
Abitavo allora in una casa che sembrava un cantiere, e avevo appena avuto mio figlio.
Sentii suonare il campanello di casa e il primo momento non aprii: lo stavo allattando. Risuonarono, quasi timidamente, allora mi sforzai, mi alzai e aprii: era il porta lettere che ormai stava rinunciando e andando via. La casa non sembrava abitata e avrebbe rinunciato a consegnare la lettera perché indirizzata a sconosciuti … Era la seconda volta che veniva e quello era l’ultimo appello.
Dunque aprii, lui entrò stupendosi che ci fosse qualcuno in quello stabile in ristrutturazione, e mi consegnò la lettera di Adriana.
Sì, la persona che non conoscevo, l’autorità in campo picoanalitico junghiano, la migliore nel campo, quella di cui leggevo gli scritti avidamente, mi aveva risposto, aveva qualcosa da dire a me che mi ritenevo un “nessuno” che non conosceva la sua strada: era tutta da percorrere, non sapevo nemmeno dove iniziava. Non mi rendevo conto che, rispondendo alla lettera, ecco, lì stava iniziando la strada. Ero ancora inconsapevole, inconscia.
Ora posso dire.
Lessi la lettera: si scusava perché mi aveva risposto tardi e mi diceva: “Anch’io mi sono sempre sentita una zingara nel profondo, pellegrina in questo mondo, sotto la volta stellata, un mondo di mistero …! Mi ringraziava poi perché avevo avuto fiducia in lei. Lei ringraziava me, la famosa e stimatissima dottoressa Adriana Mazzarella …
Sì, cominciò così.
Andai a trovarla e lì entrai in un porto sicuro, luogo di cura, di affetto, di grande intelligenza e cultura e altrettanto grande, infinita umanità.
Godetti da subito della sua età, del fatto che il suo percorso a lei era chiaro, che lei, “ferita” e “sanata”, sapeva curare le ferite altrui. L’età e la sua natura la portavano a essere tenera, generosa, buona, disponibile e molto intelligente e autorevole, al bisogno.
Cominciò così.
Trovai un porto sicuro.
Finalmente, dopo tanto soffrire avevo trovato una persona che mi poteva aiutare, accompagnare nel ripercorrere quello che per me era l’inferno, sì l’Inferno e che, tenendomi lei per mano, passo passo, diventò Purgatorio.
Dice l’alchimista : “L’Atanor, il forno alchemico, era il crogiuolo nel quale si compivano le trasmutazioni alchemiche, era paragonato all’utero muliebre. In esso venivano materializzati vari fenomeni fisici, psichici e mistici, attraverso un fuoco lento e costante”.
Ecco, fu così per me.
Un fuoco lento e costante lei mi offrì nei lunghi anni: un bene sicuro, mai eccessivo, costante, continuo, che garantiva presenza, continuità, cura e premura. Fu così che mi lasciai andare a questo calore umano lento, costante, sempre presente, e iniziai il lavoro su di me, cresciuta con una mamma, povera mamma, “disturbata”, anaffettiva, ipercritica e tremendamente colpevolizzante. Era sbagliata la mia vita, ero sbagliata io. Non adatta, inopportuna.
Mi ero trovata un porto sicuro, la garanzia del fuoco sempre acceso: potevo proseguire “come a tentoni” nella ricerca di me stessa, del mio cuore, della mia interiorità. Lei c’era, il fuoco era garantito, e io potevo affidarmi agli istinti e scendere negli abissi.
Furono anni molto seri, io mettevo in gioco tutta me stessa e lei pure, si coinvolgeva, si lasciava portare nella mia famiglia di origine, giù e giù, nella nevrosi e nel grande dolore. La sua presenza autorevole e buona mi dava forza, speranza e sicurezza, lampi di presenza a me stessa.
Proseguimmo così, lei davanti (era il mio Virgilio) e io la seguivo. Si girava per vedere se c’ero, mi accudiva con grande amore e serietà, e io rispondevo dando tutta me stessa. Era giunto il mio momento e io, generosamente verso di me, mi mettevo in gioco.
Passarono gli anni, anche il tempo fa parte della terapia, dice Jung, e infatti passarono gli anni e io, piano piano, risalivo la china.
Intanto mio figlio cresceva e la mia famigliola s’arricchiva indirettamente della presenza della dottoressa Mazzarella, perché allora era così per me. Lei mi chiedeva di loro, li proteggeva di lontano e mio marito, che sentiva la sua presenza attraverso me, che scopriva una nuova me stessa, mi accompagnava al mattino presto in stazione, addormentati tutti e due, era molto presto, verso un viaggio che io facevo dentro di me. Mi portava in stazione e mi augurava buon viaggio. Sì, il viaggio buono era rivolto a me ed era buono perché finalmente avevo trovato una sponda, una spiaggia, un approdo da cui ripartire.
Così passarono gli anni: grandissima pazienza, sguardo sempre avanti, il suo, e il mio che guardava al suo con fiducia e sicurezza. Dice il Dalai Lama che sviluppare fiducia nel maestro sia come lo spuntare del sole sul sentiero che conduce all’illuminazione.
Estati, autunni, inverni, Natale in cui le portavo il presepe, un presepe da luoghi del mondo diversi, la torta preparata insieme a mio marito che sgusciava noci e mandorle. Le portavo tutto ciò che aveva che fare con la mia intimità e con me stessa.
E lei sempre accogliente, a me intima.
Mai giudicante, mai un consiglio, un esempio. Mai didascalica. Lei ascoltava e utilizzava dei miei sogni come della via maestra. Da loro, nella nostra ora analitica, si partiva e si arrivava. Sempre molto seria, impegnata, talvolta in preghiera (io me ne accorgevo).
Solo una volta, in tutti gli anni vissuti insieme, alzò la voce, io abbassai gli occhi (aveva ragione) e quando, da sotto le ciglia la sbirciai, trovai che mi stava guardando: “Non è eccessivo? Riesci a cogliere? È la giusta dose?” Quello sguardo mi confermò il bene e mi fece capire e accogliere il fatto che un’altra curva della spirale era stata superata.
Su e su, era lei che guidava e io la seguivo. La intuivo sempre di più e tra noi nacque grande sintonia, ci furono grandi risate, comprensione profonda, non detta, mai, ma sentita e vibrante.
È ovvio, mi affezionai a lei, era il mio unico riferimento, e mi lasciai guidare: lo sguardo cominciò a cambiar direzione; non più verso di lei ma verso di me, sempre per mano, la sua mano, ma rivolto a me, alla mia interiorità. Il mio sguardo rivolto a me, la conoscenza di me, il bene per me. La comprensione profonda del detto di Gesù: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Ero io l’artefice. Talvolta l’alchimista ero io. Mi lasciava moderare il fuoco, prendere la guida per poi ridarla a lei.
Trovavo “una mente profondamente psicologica, la sua vasta erudizione, l’esperienza della vita vissuta, l’impegno generoso”, così scrisse Dieter Baumann che la conosceva bene e così anch’io la sperimentai. Trovai soprattutto il suo cuore.
Stavo bene con lei e così, indirettamente, anche la mia famiglia. Il figlio che cresceva seguendo le proprie strade e il marito che di lontano la benediva vedendo me stare sempre meglio. Un giorno lei mi disse: “Viene volentieri a Milano!” – “Si” risposi io, “qui trovo tutto ciò di cui ho bisogno: affetto, cura e conoscenza nel senso più profondo.”
E così risalimmo insieme la china. Girone dopo girone passammo nel Purgatorio. Conobbi me stessa, cominciò l’autoeducazione. Talvolta per esser più chiara mi rimandava alla lettura di alcuni passi del suo libro e della Divina Commedia. Io leggevo, studiavo con grande interesse e vivacità. Trovavo risposte anche culturali, mi si apriva la mente oltre che il cuore.
Periodo meraviglioso.
Un dono.
Fino a che, un giorno, mi disse: “Io sono arrivata al capolinea. Legga quel passo del Purgatorio, XXX Canto versetti 49-51, quando Virgilio lascia Dante”. Io me ne andai, non mi rendevo del tutto conto. Solo a casa mi capacitai di ciò che era successo. Non mi sentivo pronta, non mi sembrava vero. Ma la fiducia in lei rimaneva: avevo imparato l’umiltà, l’avere fiducia, il cedere il passo al destino, il saper accogliere ciò che il mistero presenta nella vita e così accolsi il nuovo andamento, salii un altro giro della spirale, includendo me stessa a me stessa.
Andavo ancora da lei. Meno spesso.
L’atmosfera era sempre di bene, anzi, ancora di più. Mi ero risolta, stavo bene, ero quella che dovevo essere, facevo quello che dovevo fare e lei mi seguiva di lontano.
Poi mi disse: “Ora la mia figura è stata interiorizzata, il percorso analitico è stato completato”. E io sogno un percorso a tappe, nel sogno sono in fondo e qualcuno alle mie spalle mi dice: “Sono state superate tutte le tappe. Bene, il percorso si è concluso.”
E io in questo percorso ho ricevuto veramente la Prima Comunione, cioè lo Spirito dentro di me e la possibilità di rinnovarlo e accrescerlo sulla via maestra dell’umiltà, del senso del limite.
Adriana mi disse: “Chiediti cosa vuole da te il Signore, perché ti ha fatto il dono della vita, cosa sei chiamata a vivere, a essere, a fare.”
Ora ho capito: la creatività, la spiritualità, il vivere con chi non si vede, ma c’è, questo Spirito che ognuno di noi ricerca nel profondo di se stesso. Il Bene e il Male che è in noi, oltre c’è il nostro Spirito che è vita, la vita. La vita rispettata in tutte le sue manifestazioni: dagli animali alle piante, agli uomini. Tutto ciò che è vita, lì c’è lo Spirito.
Trovarlo dentro di noi e vivere con Lui.
Questa è la creatività.
Poco più di un anno fa, era il 21 dicembre 2014, sognai tre croci: una d’oro, l’altra ricoperta di pietre preziose, l’altra d’argento. Adriana non stava bene, ma, come sempre, non capii subito, forse non volevo capire: si trattava di un grande sacrificio, preziosissimo: d’oro, d’argento e di pietre preziose.
Non capii.
Pregavo per Adriana che stava male, pregavo intensamente per lei, non per me: “Facesse la Sua volontà, ciò che il Signore pensava bene, giusto per lei”.
Di notte sognai che si aprivano i cieli: vedevo le nuvole aprirsi e intravedevo altri cieli. La visione fu così coinvolgente che, per non perdere l’equilibrio dovetti appoggiarmi a una roccia. Solo così potevo vedere, contemplare.
Adriana stava sempre peggio.
Il giorno dell’Epifania 2015, sono al piano di sopra di casa mia, mi sto lavando le mani e la sento alle mie spalle, mi fa una carezza sulla schiena, io sento che è lei, mi commuovo, non mi giro. Poi scompare. Era venuta a salutarmi. Non voglio dire nulla. Rimasi emozionata tutto il giorno.
Chiesi informazioni alle figlie, carissime figlie che lei amava: Adriana si era aggravata, ormai erano poche le speranze. Così con il gruppo degli amici, sì, perché, il pungiglione del dolore fa meno male se è vissuto insieme, con gli amici, che lei amava definire “la mia famiglia”, l’accompagnammo nell’ultimo viaggio.
Le figlie mi chiamarono: stava morendo.
Subito presi il treno e mi portai a Milano: Marinko, carissimo ragazzo, mi venne a prendere, mi portò da lei e lì la salutai dicendole: “Forza, Forza!” Morire è come nascere un’altra volta e per nascere ci vuole forza. Forza per passare a nuova vita.
Poi tornai e quando giunsi a casa, un attimo dopo, gli amici mi chiamarono: non c’era più, se n’era andata.
Mio marito mi disse: “Ti aspettava…!” L’ho amato per la comprensione e la condivisione.
Un grande dolore, ma anche una grande forza: ci ha lasciato uno splendido esempio di vita vissuta all’insegna della spiritualità, al Suo servizio. Tutto: intelligenza, cuore, affetti, emozioni, tutto al servizio dello Spirito che era in lei.
Ci ha lasciato un metodo: i sogni come via alla conoscenza di noi stessi. Lo spirito di umiltà, di contemplazione e di dedizione a loro, che – anch’ io l’ho sperimentato – sono dotati di conoscenza e profonda sapienza.
Abbiamo avuto fortuna nell’averla conosciuta e amata.
Lei scrisse: “Come si può esprimere meglio questo grande amore che lega l’allievo al maestro quando è stato veramente tale?” E così proseguiva: “ Ciò che Beatrice non tollera non è il dolore di Dante, ma il suo autocompiangersi; egli è arrivato a uno stato di gioia e non lo vuole assumere per paura. Ormai Virgilio, mente umana, non è più separato, ma immanente a lui. Ora lo guiderà il divino. Ma bisogna, senza rimpianti, riconoscere con gioia la chiamata e non indulgere nell’autocommiserazione per il distacco necessario da situazioni ormai superate”.
Ecco le sue parole ed ecco il mio sogno fatto la primavera seguente la sua scomparsa. Sono con le sue figlie, siamo sul sagrato di una chiesa. Una delle due trascina la bara della mamma. Qualcuno dice : “È ora di seppellirla, la portiamo d’ora in poi dentro di noi”. La figlia entrò in chiesa e la depose sotto a un altare, in un’urna trasparente, là dove si seppelliscono i Santi e la grandi personalità che hanno consacrato la vita a Dio. Nel sogno, ma anche nella realtà mi sembrò il suo posto.
Ora ho ricevuto la Prima Comunione, ora posso dire che lei riposa in pace e io pregherò per lei e rimarrò fedele al percorso fatto insieme e a ciò che lei mi disse una volta: “ Il nostro è stato un Incontro”. Il maestro, dice il Dalai Lama, rimane per sempre.
Nella tarda primavera, a conferma di tutto ciò, sognai che lei mi diceva: “Promettimi che mi sarai sempre vicina!” Io nel sogno mi stupii, mi sembrava ovvio, ma promisi che “Sì” le sarei stata sempre vicina. Poi con il suo fare sicuro mi disse: “Dunque, seguimi!” E io la seguii. Imboccammo una scala interna all’appartamento: attraverso la scala si passava a un altro piano, superiore. Lei davanti con il suo bastone, al quale con passo sicuro e con grande energia si sorreggeva, e io dietro che la seguivo.
Grande bene reciproco, grande stima.
Ho avuto la gioia, la fortuna e la responsabilità di averla conosciuta, dell’aver goduto della sua presenza, ora tocca a noi.
Quelli che ci hanno lasciato, non sono assenti, sono invisibili, tengono i loro occhi pieni di gloria fissi nei nostri pieni di lacrime.
(S. Agostino)
Non rattristiamoci di averla persa, ma ringraziamo di averla avuta. (S. Agostino)
Silvia Amech
Trento, 5 febbraio 2016