di Iolanda Stocchi
Questa immagine mostra un bambino autistico che sta guardando un’opera d’arte riflessa nello specchio che si trova alle sue spalle
Si comprendono le figure attraverso la loro trasfigurazione
Guardare attraverso e grazie allo specchio.
Lo specchio, se si guarda bene, rivela altro da me. Non il mio volto, ma quello che sta dietro di me o sopra di me. Lo sguardo si ferma. Nello specchio vedo altro. Vedo dietro, vedo oltre. Quello che è accaduto o che deve ancora accadere.
Cristina Campo parla di passare dalla vista alla percezione: “Affinché la vista si sollevi alla percezione. Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente”. E aggiunge: “E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?”
Ci aiuta in questo percorso una fiaba boscimane raccontata da L. van der Post, e che qui titolerò: “La cesta è ancora vuota?”.
“Un uomo che possedeva una mandria di mucche scoperse una notte che delle giovani donne del popolo celeste scendevano da una corda che calava dalle stelle e mungevano le sue mucche. Catturò la più bella e ne fece la sua sposa. Erano felici, ma la donna, che possedeva una cesta, lo pregò di non guardarvi dentro per nessun motivo, altrimenti avrebbero patito un’immensa sciagura. Un giorno l’uomo, afferrato dalla curiosità, sollevò il coperchio della cesta e scoppiò a ridere, dicendo alla sua sposa: “Perché facevi di questa cesta un così grande mistero? Dentro non c’era niente!” La donna si allontanò verso il sole del tramonto e svanì per sempre. Allora la nutrice aggiunse: “La donna non se ne andò perché l’uomo aveva infranto la sua promessa, ma perché, guardando nella cesta, non vide nulla”.
Vedere, in queste storie, sembra essere legato a una comprensione su un altro livello. A un vedere che non si ferma a ciò che ha davanti, che non travisa ma che sa cogliere l’invisibile della scena che abbiamo di fronte. Uno sguardo che ri-vela: non spiega, non traduce, non interpreta, ma trasfigura.
La cesta della fiaba boscimane può essere metafora del sollevare la vista alla percezione e del saper vedere nel contenitore vuoto della mancanza. Anche noi possiamo guardare e travisare, non vedere niente, non comprendere ciò che abbiamo di fronte.
Se catturo l’immagine e la spiego, il senso sparisce. L’immagine vola via se faccio fuori l’invisibile, l’aura. Le parole poetiche ri-velano e rispettano l’aura, e sono anche efficaci perché ci toccano e ci trasformano. È un immaginare, dove il rapporto tra significato e significante diventa intermittente, oscillante, e generatore di risonanze che aprano a nuove possibilità di comprensione.
Bachelard sostiene che l’immaginazione è all’opera nella percezione, una sorta di lavoro segreto che trasforma l’oggetto che si percepisce in un oggetto che si contempla: “Si comprendono le figure attraverso la loro trasfigurazione”.
Lo specchio
“Nell’iconografia occidentale lo specchio ha carattere contraddittorio: da un lato è attribuito della lussuria, dall’altro delle virtù che presiedono alla conoscenza. In psicoanalisi può evocare la frustrazione di uno sguardo, sempre ricercato altrove e che non permette mai di riparare a ciò che manca, oppure l’attivazione di uno sguardo interiore che esprime la capacità riflessiva di un’anima.
Così Jung:“Chi guarda nello specchio vede, è vero, per prima cosa la propria immagine. Chi va verso se stesso rischia l’incontro con se stesso. Lo specchio non lusinga, mostra fedelmente ciò che si riflette e cioè il volto che non esponiamo mai al mondo. (…) È questa la prima prova di coraggio da affrontare sulla via interiore, una prova da far desistere la maggior parte degli uomini.”
Lo specchio permette di guardarci alle spalle, di vedere dove non abbiamo occhi, dà visibilità a ciò che altrimenti sarebbe invisibile. Quando lo interroghiamo dice la verità, è magico e attiene a una conoscenza sincronica della realtà, è divinazione.
Lo specchio è l’arredo sacro di chi partecipa ai misteri perché mette l’iniziato in contatto con la divinità. Consente un atto di riflessione, è ponte verso un’altra dimensione: un invito a uscire da un gioco di proiezioni per vedere cosa ci sta di fronte.”
Da “Il Silenzio delle Sirene. Figurazioni della psiche femminile”, Iolanda Stocchi,
Biblioteca Vivarium Editore, 2005.
L’immagine e lo specchio
Unaltroocchio per poter guardare.
In questa immagine un bambino autistico – che ha difficoltà nel contattare con il suo sguardo l’immagine – può guardare indirettamente l’opera d’arte. Lo specchio come un oggetto magico permette un contatto visivo indiretto, l’unico possibile e per questo prezioso.
Alessandra Ronzini – architetto, con un master in scuola di restauro e un master in architettura e gioco – si occupa da una decina d’anni a Parigi di accoglienza e visita nei monumenti (Monuments pour tous 2008) di ragazzi e adulti di prima immigrazione, disabili, minorenni detenuti, adulti detenuti, ragazzi non scolarizzati, pazienti di ospedali psichiatrici, e classi con allievi psichiatrici
Propone laboratori all’interno dei monumenti, per avvicinare un pubblico che normalmente si tiene ai margini della società e quindi ha un accesso limitato alla cultura e alla bellezza artistica.
Laboratori che lavorano sullo sguardo e il movimento del corpo nello spazio, e che attraverso l’utilizzo di oggetti collocati nello spazio fanno sì che il soggetto e attore diventi spettatore di se stesso e del suo sguardo.
Fare esperienza dei monumenti contribuisce in questo modo all’integrazione, e a un nuovo sguardo di sé nello spazio e nella città.
In questi laboratori – dopo aver attraversato e visto lo spazio – vengono utilizzati specchi di varie dimensioni e forme che aiutano a ri-vedere lo spazio pensando di avere una sorta di occhio mobile. Lo spazio viene ri-visto attraverso lo specchio.
Lo spazio così guardato chiede che si scelga un punto di osservazione che richiede un orientamento del corpo nello spazio.
Ferma lo sguardo. Lo specchio aiuta a stare in uno spazio e a guardare più a lungo.
Cattura l’attenzione.
Lo specchio aiuta le persone con difficoltà motorie e psichiche a vedere e a farle sentire bene.
Non sei tu il soggetto che osserva, ma è lo specchio che guarda per te, ma sei tu che lo orienti con la tua mano.
Interessante sottolineare che questo tipo di utenti non usano lo specchio per specchiarsi e guardare se stessi – per un selfie – ma come terzo occhio per guardare lo spazio intorno a loro.
Un bambino autistico può in questo modo vedere il mondo attraverso lo specchio.