di Iolanda Stocchi
Come psicoanalista e terapeuta del Gioco della Sabbia, sono naturalmente interessata a tutto ciò che è manifestazione dell’anima, oggettivazione della psiche, e all’immaginazione come cura, di cui il gioco e il disegno sono espressione, riparazione e cura.
Jung diceva: “Tutto quello di cui siamo consapevoli è un’Immagine. E l’Immagine è Psiche.” E Hillman : “Siamo tutti pazienti della immaginazione”
Per questo vorrei ora parlarvi di John Berger, che ha “guardato” e interrogato immagini tutta la vita, e disegnato per guardare meglio, come atto di conoscenza. Berger si è interrogato su tutto ciò che cadeva sotto il suo sguardo e le sue mani che – toccando – vedevano: opere d’arte, articoli di giornale, oggetti, alberi, fiori, nuvole.
John Berger (1926-2017) è noto in tutto il mondo come critico d’arte, poeta, narratore, sceneggiatore cinematografico, autore teatrale e disegnatore. Lui preferiva definirsi semplice storyteller.
Stavo lavorando al mio libro sul Gioco della Sabbia e la Pazienza dello Sguardo e mi portavo dentro la domanda “Qual è lo Sguardo che cura?”, quando ho incontrato lo Sguardo originale di Berger e i suoi libri: Questione di Sguardi, Modi di vedere, Perché guardiamo gli animali?, Sul Disegnare,Confabulazioni.
Ascolto visivo
Vorrei mostrarvi il suo “sguardo”, il suo modo di guardare, a partire del suo ultimo libro uscito –Ritratti – e in particolare dal primo “ritratto” che dedica ai pittori della grotta paleolitica di Chauvet.
Berger è per me un “Maestro dello Sguardo”, di uno sguardo che sa ascoltare, che sa essere intimo alle cose, che osserva, e sa intercettare l’inarticolato, sa raccogliere il loro segreto.
Sto parlando di “ascolto visivo”. Di cosa “sentiamo” quando guardiamo.
J.B. dice – in Ritratti – a proposito dell’artista Liane Birnberg :“Nello spazio del passato (…) spesso i colori fluttuano come suoni, e il segreto di questo spazio è simile – non ti pare? – al mistero dell’acustica. Comunque non riesco a guardare i tuoi dipinti senza ascoltarli.”
Così come disegna il canto e il suono, mentre ascolta la cantante Yasmine. Dice in Confabulazioni: “Ogni tanto scarabocchiavo senza guardare la pagina e senza staccarti gli occhi di dosso” “come se la mia penna accompagnasse la tua voce”. E ne esce uno “scarabocchio” frutto dell’ascolto visivo del canto di Yasmine. Sinestesie.
In Modi di vedere accenna a questo rapporto tra sguardo e ascolto visivo: “Non credo che gli occhi siano semplicemente gli organi della percezione ottica, pur essendo anche questo. (…) di fronte al mare, a un tramonto, a un semplice albero (…) ci si accorge che si sta guardando qualcosa che non coincide con ciò che si ha davanti agli occhi, che va oltre. Se è vero che gli occhi sono (…) il mio primo strumento, lo sono solo in questo senso. Infatti (…) ciò che ho in mano all’inizio (…) non è propriamente neppure un’immagine visiva. È piuttosto qualcosa di pre-verbale e che ha in sé una certa organizzazione: una sorta di melodia che però non è neppure musicale. (…) pur essendo completamente muta. E questa costellazione (…) è il principio ispiratore”.
L’ascolto visivo è lasciar parlare le immagini che ci troviamo davanti, ascoltare con lo sguardo, non interpretare, ma interrogare. Questo suo sguardo mi ha toccato perché anche noi terapeuti dobbiamo prestare “orecchio” a questo “inarticolato”. “Alla bestia muta che arranca” direbbe la psicoanalista inglese Nina Coltart.
Arrivare alla vicinanza della distanza
Per comprendere il suo sguardo che sa “intercettare” l’inarticolato, il segreto che sta dietro le cose e il modo in cui ci invita a guardare, è esemplare il suo modo di raccontare nel libro i dipinti degli animali della grotta paleolitica di Chauvet.
Lì agisce il suo tipico movimento centrifugo che lo porta ad allontanarsi dall’oggetto della sua analisi per potersi avvicinare, mostrandoci così corrispondenze misteriose.
Berger a proposito della fotografa cecoslovacca Jitka Hanzlovà cita una frase di Heidegger: “Arrivare alla vicinanza della distanza”, che a mio parere si addice al modo che ha Berger di approcciarsi al mistero di ciò che si trova davanti.
Ci conduce dove l’opera prende corpo, ha origine. Ci fa fare l’esperienza che sta all’origine, che sta dietro.
La difficoltà di trovare le parole per dire il mistero di quelle apparizioni nelle grotte paleolitiche e lo spazio in cui quelle immagini esistono e furono immaginate come tali – porta Berger a spostarsi e a parlarci della sera e delle mucche del suo amico Louis che rientrano dal pascolo e di come all’improvviso quella sera vede tutto questo come da una distanza di migliaia di anni… e di come tutto lì era indivisibile. A farci fare l’esperienza del buio e dell’animale.
“Solo se ricordiamo questa unità e le tenebre di cui abbiamo parlato, riusciamo a trovare la nostra strada nello spazio delle antiche pitture”.
Berger non spiega, ma ri-vela. Comprendiamo, ma il mistero permane.
Questa raccolta di Ritratti sembra la risposta alla domanda:“Esiste un modo di guardare che rende segreto – restituisce mistero a ciò che guardo – ri-vela?”
Sguardo e segreto. Sguardo e segreto sono intimamente connessi. “Secreto” deriva da “secernere”: guardare.
Un modo che non volatilizza con la spiegazione il mistero – ricordiamoci che la Sfinge vola via gridando dopo la risposta intelligente di Edipo – ma comprende ?
L’ascolto visivo lascia parlare ciò che si trova di fronte. Non interpreta. Domanda. Comprende.
Anche in analisi dobbiamo stare attenti a che le interpretazioni e le risposte non facciano fuori i sogni e le domande.
Penso che si addica a Berger quello che ha detto lo psicoanalista francese Fedida, quando afferma che “l’analisi è l’arte di far lavorare i sogni” – più che interpretarli – in modo che i sogni producano un effetto, agiscano, quello che ha affermato Hillman, quando dice: “i sogni ci comprendono più di quando li comprendiamo”.
Berger ha l’arte di far lavorare le immagini. Le immagini ci guardano e ci comprendono.
Guardare è una forma di preghiera
Ed è anche la risposta ad un’altra domanda conseguente – a me molto cara come terapeuta del GdS – che formulo così:“Qual è lo Sguardo adeguato per comprendere e ri-velare quella misteriosa necessità della psiche di oggettivarsi nei sogni, nelle immagini, nell’arte?”
Quale Sguardo favorisce – sblocca, cura – questo processo? Che Jung dice essere di autoguarigione della psiche.
Per comprendere questo dobbiamo guardare le cose dal punto di vista della immagine e tenere presente che l’immagine mi guarda, e che non si tratta di spiegarla, ma di interrogarla.
Guardare è interrogare con gli occhi.
Dice Berger – in Ritratti – che per Giacometti guardare è una forma di preghiera.
“Ecco perché il contenuto di ogni sua opera piuttosto che nella natura della figura o della testa raffigurata risiede nella storia incompleta del suo guardarla. L’atto di guardare era per lui una forma di preghiera – era diventato un modo per avvicinare l’assoluto, pur senza mai riuscire ad afferrarlo. Era l’atto di guardare che gli dava la consapevolezza di essere perennemente sospeso tra essere e verità”
In questo senso a mio parere anche Ritratti è una forma di preghiera laica.
Lo Sguardo di J.B. è uno sguardo paziente e in movimento che si muove curioso di trovare nuove connessioni, e nuove figure prima invisibili emergono dallo sfondo.
Uno Sguardo che è pensiero, nel senso in cui dice il poeta D.H. Lawrence nella poesia Thought, pensare: “Pensare è guardare in faccia la vita, e leggere quel che si può leggere (…) Pensare è un uomo intero che partecipa con tutto se stesso”.
Questa abitudine a “pensare” sembra – scrive Geoff Dyer in Capire una fotografia – una versione duratura e disciplinata di qualcosa che Berger aveva intuito nell’infanzia. In Qui dove ci incontriamo (2005) la madre di Berger lo ricorda da bambino: “Non ho mai visto nessuno guardare con la tua intensità, in punta al tuo sedile”.
J.B. è capace di interrogare il visibile con intensità di attenzione e anche con tenerezza.
Il suo guardare è una forma di preghiera.
Del resto Malebranche diceva che “l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima”.
Sguardo come “pelle”
Il suo Sguardo come pelle ci mostra l’invisibile: lo sfondo diventa figura, e ci consente di vedere.
Vorrei accennare in una battuta alla funzione che l’Immagine svolge che è simile a quella della pelle psichica, nel senso descritto da Anzieu, mediando tra interno ed esterno, ed è anche per questo che non è facile cambiare pelle e vedere altro. L’immagine come pelle implica infatti la scelta di cosa è Io e cosa è non-Io e – poiché ci sono visioni che ci inquietano e non vogliamo vedere – il nostro sguardo non le raccoglie, anche se le abbiamo davanti agli occhi.
Noi analisti prestiamo orecchio e siamo attenti allo sfondo, al dettaglio che getta luce, e fa emergere e vedere figure nuove.
Proprio per questo mi sono ritrovata in quello che Berger scrive a proposito del dettaglio – di quello che è sullo sfondo – nell’opera di Vermeer.
Sottolinea come Vermeer metta l’accento su dettagli, che nei suoi quadri rimandano a ciò che si sottrae alla percezione visiva, e afferma come ogni cosa, in ogni interno da lui dipinto, rimandi a eventi esterni alla stanza. “Il loro spirito e il contrario del domestico. La funzione dell’angolo isolato della stanza e di ricordarci l’infinito. … è stato il primo a dubitare dell’adeguatezza dell’evidenza visiva”.
Berger ci fa vedere oltre quando raccoglie il dettaglio che ci fa vedere le cose in altra luce.
Il suo sguardo sa trovare il segreto nascosto dietro l’opera che ha dinanzi “sa toccare il tema di fondo costante, una sorta di soggetto nascosto ma continuo”.
Jung direbbe il mito personale, l’aspetto mitobiografico dell’autore dell’opera.
Berger – come per la grotta di Chauvet – immagina connessioni visionarie eppur reali, quando per farci comprendere l’opera di Frida Khalo ci suggerisce che aspirava alla sensibilità della sua pelle. Ci suggerisce che ciò che dipingeva le veniva da “un duplice senso del tatto: la conseguenza dell’immaginario che stava dipingendo la propria pelle”, “la sensazione del legno lucido di un parquet, la lanugine delle piume di un pulcino, la superficie cristallina di una pietra” o quando a proposito delle atmosfere di Turner ci dice della sua esperienza di una bottega di barbiere: “immaginiamo la bottega del barbiere: acqua, schiuma, vapore, metallo luccicante, specchi appannati, catini o bacili bianchi in cui il liquido saponoso viene mosso dal pennello del barbiere e sul cui fondo vanno a depositarsi i residui. Pensiamo all’analogia tra il rasoio del padre e la spatola di cui Turner seguito a servirsi così ampiamente.“
E per fare questo racconta. Usa il verbo raccontare, non descrivere o criticare e neppure interpretare. Non fa fuori l’immagine con l’interpretazione, ma rispetta il mistero. Le fa vivere. Lavora per amplificazione e permette di “inconsciarsi”, come direbbe lo psicoanalista A. Ferro, o di nuovo “fa lavorare le immagini” come dice lo psicoanalista francese P. Fedida a proposito dell’analisi che sarebbe l’arte di far lavorare i sogni. È uno storyteller.
Ed è quello che ci troviamo a fare anche noi terapeuti. Il racconto rende vivo. Anima.
Come terapeuti del GdS siamo testimoni di un “poieo”, di un farsi della psiche che diventa figura, di “quella cosa muta e tremante” – di cui parla anche JB – che prende forma, si oggettiva.
Quando ce la troviamo davanti ci chiediamo da dove proviene? La interroghiamo per comprendere cosa c’è dietro.
L’Immagine ci guarda!
Per poter entrare in contatto con questa sorta di melodia è necessario andare fino alla preistoria della nostra esistenza, prima della separazione corpo e mente: al pre-verbale.
È necessario quindi – Berger dice anche per tradurre – per comprendere e per vedere – “per sollevare la vista alla percezione” come ha detto C. Campo – toccare quell’inarticolato, ciò che sta dietro le cose, i “precordi“scrive S. V. Finzi. Luogo da toccare anche per noi terapeuti, perché è anche il luogo della cura. Luogo silenzioso e muto, ma vivo.
Forse per questo Arundhati Roy dice che J.B. è “un guaritore capace di curare gli scrittori feriti.” E non solo gli scrittori. Leggerlo fa bene. È una forma di meditazione.
Il poeta e la “luce del vero”
Penso che più di ogni altra cosa Berger sia un poeta perché, come scrive Chandra, poeta è chi “usa una lingua cellulare, che sa parlare al corpo”. Una lingua che “fa”.
J.B. è un poeta nel senso più vero della parola. Il poeta sa toccare dove lo incontra – in un testo, in un quadro o in un accadimento – il “poieo” che sta dietro quella cosa, che sta dietro il farsi della cosa, quello che l’ha generata e la anima, la tiene viva, “la cosa tremante e quasi muta” e ce la mostra, ce la ri-vela.
Per fare questo oltre che poeti bisogna essere artigiani nel senso che “narrare è lavorare la materia prima delle esperienze – altrui e proprie – in modo solido, utile, irripetibile, un artigianato che implica “anima, occhio, mano”.
Vorrei qui far risuonare lo sguardo di J.B. con le parole del poeta Franco Loi nella conversazione poetica con Marco Manzoni “La luce del vero”. Loi dice che poeta è colui che sa intravedere nelle maglie della quotidianità “la luce del vero”. Vedi “la luce del vero” quando sai toccare anima e corpo, spirito e materia.
La luce del vero è dove l’ignoto e il noto sono insieme e dove vedo che le cose tangibili sono mosse da altro.
John Berger ci fa intravedere e sentire questo. Ci fa fare l’esperienza.
E questo fa bene, ripara. Cura.