di Iolanda Stocchi
Come non rischiare di non vedere niente?
Quante volte i bambini dicono “guarda! guarda!” O ci fanno domande che liquidiamo con frettolose risposte.
La Sfinge, l’enigma da risolvere, vola via gridando dopo la risposta intelligente di Edipo – l’interpretazione intelligente dell’analista: perché non si è sentita compresa.
Il sintomo si sposta, si nasconde. L’indovinello andava svelato e spiegato o ri-velato?
Lo Sguardo che non si svuota non vede niente e fa volare via, volatilizza. Non può accogliere ed essere fecondo, e non rende pregno ciò che sta guardando. “Mostrifica”, e non permette alla creatura di venire alla luce.
Quale sguardo sa vedere?
Vedere sembra essere legato a una comprensione su un altro livello. A un vedere che non si ferma a ciò che ha davanti, che non travisa ma che sa cogliere l’invisibile della scena che abbiamo di fronte. Uno sguardo che ri-vela: non spiega, non traduce, non interpreta, ma trasfigura.
Lo sguardo che solleva la vista alla percezione. Lo sguardo che rende visibile il processo che l’ha generata.
È uno sguardo oggettivo, che non ci mette del suo. Uno sguardo sognante che sa vedere gli esseri e le cose non in rapporto a sé, ma permette a tutte le cose d’essere quello che sono senza giudizio, senza perché.
La cesta della fiaba boscimane (raccontata in L’immagine mi guarda attraverso lo specchio
“Affinché la vista si sollevi alla percezione) può essere metafora della sabbiera del GdS e di tutti i luoghi di gestazione.
Anche noi possiamo guardare dentro la sabbiera e travisare, non vedere niente, non comprendere.
Come guardare un processo?
Se voglio comprendere una farfalla, devo osservarla in volo. Perché la psiche è viva e sfugge, come la vita. Vivisezionarla è farla fuori, disanimarla: renderla cadavere.
L’attenzione deve librare uniformemente.
Se catturo l’immagine e la spiego, il senso sparisce. L’immagine vola via se faccio fuori l’invisibile, l’aura. Si tratta di immaginare.
Come guardare il processo di costruzione del quadro di sabbie?
Col tempo ho iniziato a filmare le sabbie per vedere meglio, cercando di animarle ritrovando i gesti compiuti per realizzarle e lo sguardo del paziente e gli sguardi dei personaggi collocati nella sabbiera. Ri-vedo la sabbia filmandola, accarezzandola.
Elogio dello Sguardo
Spesso come terapeuta ho dovuto oscillare tra uno sguardo vergine ovvero libero, vuoto e uno sguardo madre, ovvero fecondo e nutritivo.
Uno sguardo àncora — come quello che il bambino chiede quando vuole essere sicuro che comprendo quello che sta facendo in un momento critico, nella costruzione di un quadro di sabbia, per poter procedere — a cui il paziente può aggrapparsi per la sua discesa agli inferi, e uno sguardo ancòra — come quello di chi ha bisogno di ripetere lo stesso gesto inceppato — che non si stanca di stare a guardare tante volte la stessa scena.
C’è lo sguardo che penetra, che ti fa sentire nudo e c’è lo sguardo che accoglie, che ti fa sentire a casa, che ti lascia essere. Lo sguardo concavo e lo sguardo convesso.
Lo sguardo femminile e lo sguardo maschile.
Uno sguardo porto che accoglie e sta lì come base sicura, permettendo al paziente tutti i movimenti — le partenze e i viaggi — e garantisca il ritorno, e uno sguardo faro, che lo aiuti e lo orienti quando ha perso la terra e si trova tra i marosi della vita e delle sue emozioni.
Spesso nella vita invece abbiamo incontrato sguardi che ci hanno frantumato o pietrificato. E abbiamo necessità di sguardi-come pelle che ci fanno sentire interi e integri. Che ci carezzino.
Due immagini: una Sabbia e uno Sguardo
Mi chiedo qual è lo sguardo di cui quel paziente ha bisogno per esistere, e mi piace immaginare uno sguardo-rimedio per ogni Sabbia.
Nella prima immagine c’è un bambino – Linus con la copertina – ignorato dai due personaggi, in cerca di uno sguardo che lo veda.
Se penso allo sguardo della bambina che ha realizzato questa sabbia – dopo un’altra in cui solo la fata può mettere pace tra cane e gatto: solo lo sguardo della fata-madrina può sconfiggere quello della matrigna che ci fa sentire delle Cenerentole – sento che si porta dentro uno sguardo che dice “non va bene così”. Uno sguardo che giudica, e fa sentire inadeguati.
Enrica, bambina molto intelligente e sensibile, viene infatti portata perché ha scarsa fiducia nelle sue capacità di riuscire a fare le cose, e per questo piange e si arrabbia.
Nella sua prima sabbia porta il tema costellato in lei e nel sistema familiare: lo sguardo della matrigna che dice “non va bene cosi”. Sguardo che arriva dalla nonna materna, e che la madre sensibile — vittima a sua volta di quello sguardo — ha visto per tempo essere in azione nella figlia.
In questa immagine, Linus si consola con la copertina – oggetto transizionale – sperando che qualcuno si volti e lo veda.
Nella seconda immagine – del timpano della chiesa romanica di Saint-Pierre a Beaulieu-sur-Dordogne – al di sotto dei piedi degli apostoli i morti resuscitano ed escono dai sepolcri. Tutti sono testimoni della venuta del Cristo. “Ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero.” (Ap. I, 7)
Il bambino ferito, perché non è stato visto, può sperare che finalmente lo vedrà chi non lo aveva potuto vedere. Che il genitore lo veda e lo carezzi con il suo sguardo.
Abbiamo bisogno di uno sguardo-come pelle che ci faccia sentire vivi. Uno sguardo che ci accarezza.
Scrive Chandra Livia Candiani nel suo toccante libro “Il silenzio è cosa viva”, Einaudi 2018:
“Nella sua opera Totalità e Infinito, Lévinas dice che vorrebbe sostituire al termine “concetto”, qualcosa che vi è afferrato, la parola “carezza” , qualcosa che sfiora senza prendere, qualcosa che scorre. La carezza e la “marcia verso l’invisibile” perché la carezza “non sa cosa cerca”.
Questo è il giusto tocco a cui ci addestriamo nei confronti di noi stessi e degli altri, conoscere accarezzando, lasciandoci accarezzare dal respiro, lasciandoci toccare dalla vita.”
Uno sguardo come una carezza, che non vuole afferrare ma ci lascia essere.